Non vedi laggiù la stretta viacosì angusta, circondata da spine e da rovi?
È il sentiero della Virtù, sebbene pochi lo ricerchino.
E non vedi laggiù quell’ampia, ampia stradache si snoda attraverso il campo di gigli?
È il sentiero della Malvagità, sebbene alcuni lo chiamino Via del Paradiso.
E non vedi laggiù un grazioso viottoloche serpeggia sull’erta tra le felci?
È il sentiero verso la magica Terra degli Elfi, dove tu e io questa notte avremo riposo.
J. R. R. Tolkien, Sulle fiabe
Chiunque, credo, associa automaticamente il nome di John Ronald Reuel Tolkien al titolo della sua opera celeberrima, Il Signore degli Anelli. Io stessa ho recentemente scoperto che lo scrittore anglosassone è stato anche un teorico della fiaba: in Albero e foglia (1964), infatti, troviamo il suo saggio Sulla fiaba. Premetto che non possiedo il libro e quindi non ho potuto leggere il saggio in questione, ma documentandomi ho potuto farmi un'idea del suo contenuto.
Tolkien elenca quattro usi o valori delle fiabe: Evasione, Riscoperta, Consolazione, Fantasia.
Evasione
Spesso la letteratura escapista è accusata di disinteressarsi della realtà, per questo il carattere evasivo della letteratura fantastica viene visto negativamente. A chi lo accusava di evasione fine a se stessa Tolkien replicava che:
"L’evasione del prigioniero non va confusa con la fuga del disertore."
Infatti secondo lo scrittore è assurdo dire ad un prigioniero che fuggire è sbagliato. Ora la domanda è: evadere da cosa? La risposta di Tolkien è «dal mondo», che è spesso malvagio e ci confonde: l’evasione ci aiuta infatti a sfuggire la «schiavitù degli oggetti» e a recuperare una visione chiara delle cose. Portato all’estremo, poi, il concetto di evasione si fa carico persino del desiderio umano di sottrarsi alla Morte.
Riscoperta
Il secondo valore delle fiabe è la riscoperta, intesa come recupero della bellezza della sorpresa infantile di fronte alle novità: le fiabe, secondo Tolkien, ci aiutano a recuperare quella freschezza che avevamo da bambini, di contro alla tendenza a farci condizionare dalle abitudini e da ciò che è “vecchio e già sperimentato”.
Consolazione
La consolazione, ovvero il famoso “lieto fine”, è forse quella condizione senza la quale non può esistere alcuna fiaba. Se la tragedia è la forma più alta del teatro, pare che la struttura stessa della fiaba esiga una risoluzione positiva. Tolkien parla di un capovolgimento finale che porta la storia ad una eucatastrofe (termine coniato da lui stesso) finale, che altro non è che «una visione fuggevole della Gioia oltre le muraglie del mondo».
Fantasia
E' forse l'aspetto che in sede di letteratura fantasy m'interessa di più, per via del rinvio all'importante attività della creazione di un mondo.
Tolkien definisce la fantasia come la facoltà che noi abbiamo di immaginare cose che non abbiamo mai visto né sentito. In particolare, con la memoria immaginiamo il passato, con l’intuizione il presente, e con la previsione il futuro. Qui Tolkien aggiunge un Terzo Regno: quello delle opportunità non realizzate, dove dimora tutto ciò che non esiste. Secondo lo scrittore, grazie alla fantasia, noi possiamo immaginare – forse anche creare – parti di quel mondo.
Inoltre, Tolkien volle sfatare il luogo comune che associa la letteratura fantastica (in questo caso quella favolistica) al mondo dei bambini. Infatti, secondo lo scrittore:
"La connessione istituita tra bambini e fiabe non è che un accidente della nostra storia."
Le storie di Biancaneve, Cenerentola, ecc., in origine contenevano aspetti complessi e anche violenti, destinati agli adulti; tanto che, sempre a detta di Tolkien, le fiabe non sarebbero semplicemente storie di fate, bensì:
"Vicende in cui si narra del mondo fatato […] È un reame che contiene molte altre cose accanto a elfi e fate […]: racchiude i mari, il sole, la luna, il cielo, e la terra e tutte le cose che sono in essa, alberi e uccelli, acque e sassi, pane e vino, e noi stessi, uomini mortali, quando siamo vittime di un incantesimo."
Tolkien rintraccia lo slittamento delle fiabe dal mondo adulto a quello infantile nell’Inghilterra vittoriana dominata dalla rivoluzione industriale che aveva scombussolato la società: in questo contesto le fiabe incarnavano la nostalgia per un mondo genuino che andava scomparendo. Ad un certo punto gli editori fiutarono l’interesse crescente per questo mondo in estinzione e, di conseguenza, per lo stadio dell’infanzia, caratterizzato dalla semplicità e dal gioco: così le fiabe di tutto il mondo furono riadattate e riempite di ragazze indifese e oppresse e di giovani baldanzosi premiati per le loro virtù cristiane. Tempo dopo, un signore di nome Walt Disney avrebbe dato un grande contributo a questa nuova tendenza col suo primo lungometraggio a cartoni: Biancaneve. A chi lo criticava di generalizzare eccessivamente le fiabe a danno della loro forma originaria Disney rispondeva così:
"Semplicemente, ai nostri giorni la gente non vuole ascoltare le fiabe nella versione originale. Queste infatti erano troppo violente. In ogni caso, alla fine, si ricorderanno la storia nel modo in cui noi la filmiamo."
Ed in effetti, oggi è il nome di Walt Disney, e non quello di Tolkien, a balzare alla mente quando si parla di fiabe.
Link correlati:
Su Tolkien e le fiabe (di Terri Windling)
http://www.endicott-studio.com/rdrm/Itfortolkn.html
Un articolo del Corriere della Sera
http://www.corriere.it/speciali/signoredeglianelli/articolomedail.shtml
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